Santa Messa 26-10-21
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BEATO BONAVENURA DA POTENZA
Antonio Carlo Gerardo Lavanca nacque a Potenza il 4 gennaio 1651, da Lelio Lavanga e Caterina Pica; fu battezzato lo stesso giorno della nascita. In giovanissima età ebbe occasione di conoscere i Frati Minori Conventuali e sentì la chiamata di Dio ad assumere il loro stile di vita, povero per scelta, improntato all’ubbidienza ai superiori e all’abnegazione.
A quindici anni, dunque, iniziò il noviziato nel convento di Nocera Inferiore, cambiando nome in fra’ Bonaventura da Potenza. Fu poi inviato ad Aversa e a Maddaloni per approfondire gli studi in vista del sacerdozio. Lì, però, l’ambiente era dissimile da quello iniziale potentino, che l’aveva affascinato nella sua spontanea povertà.
A causa del disagio interiore che provava, fu trasferito prima a Lapio in Irpinia, poi ad Amalfi. In quest’ultimo convento incontrò un suo conterraneo, padre Domenico Girardelli da Muro Lucano, il quale divenne la sua guida spirituale. Così imparò a moderare il suo spirito: da ribelle e scalpitante, divenne ubbidiente ed esecutore entusiasta di ogni parola di Dio attraverso i suoi vicari, ossia i superiori.
Nel convento amalfitano cominciarono a verificarsi episodi quasi miracolosi che testimoniavano la completa fiducia in chi gli comandava qualcosa, anche la più assurda. Tale semplicità d’animo gli meritò la gioia di diventare sacerdote, nel 1675.
Rimase ad Amalfi otto anni, vivendo in una simbiosi stupenda e spirituale con l’ormai vecchio frate Domenico Girardelli. Quando fu destinato a Napoli, si lasciarono in lacrime, con il presentimento di non rivedersi più.
Da Napoli passò a Ischia, quindi a Sorrento. In tutte queste destinazioni, si distinse come un esempio vivente della povertà francescana più stretta, edificando i confratelli con la sua vita dedita tutta all’ubbidienza. Era infatti solito dire: «Signore, sono un servo inutile nelle tue mani».
Fu in seguito incaricato di formare i nuovi frati nel Noviziato di Nocera Inferiore, dove fu maestro di un rigore di vita aspro e impegnativo, con una stima profonda della povertà, auspicando un ritorno alle origini del francescanesimo.
Spesso padre Bonaventura comunicava in anticipo alle persone che conosceva, anche vescovi, nobili e confratelli, fatti che poi puntualmente si avveravano. Ad esempio, mentre era in viaggio per raggiungere Potenza, dove sua sorella era in fin di vita, vide l’anima di lei volare al cielo, così da poter tornare indietro.
Ancora, come san Francesco, abbracciò un lebbroso: questi guarì all’istante. A Ischia rimase nove anni, disseminando il suo cammino di ulteriori prodigi. Quando dovette imbarcarsi per una nuova destinazione, il popolo ischitano si raccolse tutto sulla spiaggia a salutarlo.
Nel convento di Sant’Antonio a Porta Medina, a Napoli, fu visto elevarsi da terra mentre pregava. Non aveva il dottorato in Teologia, ma la sua predicazione era così profonda da lasciare interdetti i suoi dotti confratelli di San Lorenzo Maggiore, la principale comunità francescana conventuale della città.
La peste a Napoli, scoppiata nel XVII secolo, lo vide in primo piano nell’assistenza personale degli appestati. Lui stesso si ammalò, ma per altre ragioni: una gamba gli andò in cancrena e, per questo, dovette subire un’operazione chirurgica.
All’inizio del 1710, ormai vecchio e malato, fu destinato al convento di Ravello. Dato che non poteva scendere fra gli abitanti, erano loro che a frotte salivano al convento per ricevere conforto, attratti dagli innumerevoli prodigi che operava. Padre Bonaventura morì nel convento di San Francesco a Ravello il 26 ottobre del 1711, fra il pianto popolare e con il suono delle campane sciolte in un concerto di gloria.
Fu dichiarato Beato da papa Pio VI il 26 novembre 1775. La sua memoria liturgica, per l’Ordine dei Frati Minori Conventuali e la diocesi di Amalfi-Cava dei Tirreni, sotto cui cade Ravello dal 1818, ricorre il 26 ottobre, giorno della sua nascita al Cielo. I suoi resti mortali sono venerati nella chiesa di San Francesco a Ravello, esposti in un’urna sotto l’altare maggiore.
Autore: Antonio Borrelli ed Emilia Flocchini
LITURGIA DELLA PAROLA
Prima Lettura Rm 8, 18-25
L’ardente aspettativa della creazione è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi.
L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.
Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati.
Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.
Salmo Responsoriale Dal Salmo 125
Grandi cose ha fatto il Signore per noi.
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.
Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.
Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.
Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni.
Canto al Vangelo Mt 11,25
Alleluia, alleluia.
Ti rendo lode, Padre,
Signore del cielo e della terra,
perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno.
Alleluia.
Vangelo Lc 13,18-21
Il granello crebbe e divenne un albero.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, diceva Gesù: «A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? È simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami».
E disse ancora: «A che cosa posso paragonare il regno di Dio? È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».