Messa quotidiana

Santa Messa 26-10-20

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BEATO BONAVENTURA DA POTENZA

Antonio Carlo Gerardo Lavanca nacque a Potenza il 4 gennaio 1651, da Lelio Lavanga e Caterina Pica; fu battezzato lo stesso giorno della nascita. In giovanissima età ebbe occasione di conoscere i Frati Minori Conventuali e sentì la chiamata di Dio ad assumere il loro stile di vita, povero per scelta, improntato all’ubbidienza ai superiori e all’abnegazione.
A quindici anni, dunque, iniziò il noviziato nel convento di Nocera Inferiore, cambiando nome in fra’ Bonaventura da Potenza. Fu poi inviato ad Aversa e a Maddaloni per approfondire gli studi in vista del sacerdozio. Lì, però, l’ambiente era dissimile da quello iniziale potentino, che l’aveva affascinato nella sua spontanea povertà.
A causa del disagio interiore che provava, fu trasferito prima a Lapio in Irpinia, poi ad Amalfi. In quest’ultimo convento incontrò un suo conterraneo, padre Domenico Girardelli da Muro Lucano, il quale divenne la sua guida spirituale. Così imparò a moderare il suo spirito: da ribelle e scalpitante, divenne ubbidiente ed esecutore entusiasta di ogni parola di Dio attraverso i suoi vicari, ossia i superiori.
Nel convento amalfitano cominciarono a verificarsi episodi quasi miracolosi che testimoniavano la completa fiducia in chi gli comandava qualcosa, anche la più assurda. Tale semplicità d’animo gli meritò la gioia di diventare sacerdote, nel 1675.
Rimase ad Amalfi otto anni, vivendo in una simbiosi stupenda e spirituale con l’ormai vecchio frate Domenico Girardelli. Quando fu destinato a Napoli, si lasciarono in lacrime, con il presentimento di non rivedersi più.
Da Napoli passò a Ischia, quindi a Sorrento. In tutte queste destinazioni, si distinse come un esempio vivente della povertà francescana più stretta, edificando i confratelli con la sua vita dedita tutta all’ubbidienza. Era infatti solito dire: «Signore, sono un servo inutile nelle tue mani».
Fu in seguito incaricato di formare i nuovi frati nel Noviziato di Nocera Inferiore, dove fu maestro di un rigore di vita aspro e impegnativo, con una stima profonda della povertà, auspicando un ritorno alle origini del francescanesimo.
Spesso padre Bonaventura comunicava in anticipo alle persone che conosceva, anche vescovi, nobili e confratelli, fatti che poi puntualmente si avveravano. Ad esempio, mentre era in viaggio per raggiungere Potenza, dove sua sorella era in fin di vita, vide l’anima di lei volare al cielo, così da poter tornare indietro.
Ancora, come san Francesco, abbracciò un lebbroso: questi guarì all’istante. A Ischia rimase nove anni, disseminando il suo cammino di ulteriori prodigi. Quando dovette imbarcarsi per una nuova destinazione, il popolo ischitano si raccolse tutto sulla spiaggia a salutarlo.
Nel convento di Sant’Antonio a Porta Medina, a Napoli, fu visto elevarsi da terra mentre pregava. Non aveva il dottorato in Teologia, ma la sua predicazione era così profonda da lasciare interdetti i suoi dotti confratelli di San Lorenzo Maggiore, la principale comunità francescana conventuale della città.
La peste a Napoli, scoppiata nel XVII secolo, lo vide in primo piano nell’assistenza personale degli appestati. Lui stesso si ammalò, ma per altre ragioni: una gamba gli andò in cancrena e, per questo, dovette subire un’operazione chirurgica.
All’inizio del 1710, ormai vecchio e malato, fu destinato al convento di Ravello. Dato che non poteva scendere fra gli abitanti, erano loro che a frotte salivano al convento per ricevere conforto, attratti dagli innumerevoli prodigi che operava. Padre Bonaventura morì nel convento di San Francesco a Ravello il 26 ottobre del 1711, fra il pianto popolare e con il suono delle campane sciolte in un concerto di gloria.
Fu dichiarato Beato da papa Pio VI il 26 novembre 1775. La sua memoria liturgica, per l’Ordine dei Frati Minori Conventuali e la diocesi di Amalfi-Cava dei Tirreni, sotto cui cade Ravello dal 1818, ricorre il 26 ottobre, giorno della sua nascita al Cielo. I suoi resti mortali sono venerati nella chiesa di San Francesco a Ravello, esposti in un’urna sotto l’altare maggiore.


Autore:
Antonio Borrelli ed Emilia Flocchini

LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura           Ef 4, 32 – 5, 8
Camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato.

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni
Fratelli, siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.
Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore.
Di fornicazione e di ogni specie di impurità o di cupidigia neppure si parli fra voi – come deve essere tra santi – né di volgarità, insulsaggini, trivialità, che sono cose sconvenienti. Piuttosto rendete grazie! Perché, sappiatelo bene, nessun fornicatore, o impuro, o avaro – cioè nessun idolatra – ha in eredità il regno di Cristo e di Dio.
Nessuno vi inganni con parole vuote: per queste cose infatti l’ira di Dio viene sopra coloro che gli disobbediscono. Non abbiate quindi niente in comune con loro. Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce.

Salmo Responsoriale          Dal Salmo 1
Facciamoci imitatori di Dio, quali figli carissimi.

Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi,
non resta nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli arroganti,
ma nella legge del Signore trova la sua gioia,
la sua legge medita giorno e notte.

È come albero piantato lungo corsi d’acqua,
che dà frutto a suo tempo:
le sue foglie non appassiscono
e tutto quello che fa, riesce bene.

Non così, non così i malvagi,
ma come pula che il vento disperde.
Il Signore veglia sul cammino dei giusti,
mentre la via dei malvagi va in rovina.   

Canto al Vangelo   Gv 17,17
Alleluia, alleluia.

La tua parola, Signore, è verità;
consacraci nella verità.
Alleluia.

Vangelo   Lc 13, 10-17
Questa figlia di Abramo non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù stava insegnando in una sinagoga in giorno di sabato. C’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni; era curva e non riusciva in alcun modo a stare diritta.
Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei liberata dalla tua malattia». Impose le mani su di lei e subito quella si raddrizzò e glorificava Dio.
Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, prese la parola e disse alla folla: «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi guarire e non in giorno di sabato».
Il Signore gli replicò: «Ipocriti, non è forse vero che, di sabato, ciascuno di voi slega il suo bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?».
Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute.