Omelia 5-2-15
Gesù noi crediamo e speriamo in Te
SANT’AGATA, Vergine e martire
All’inizio del III secolo, l’imperatore Settimio Severo emano’ un editto di persecuzione. Egli stabilì che i cristiani dovevano essere prima denunciati alle autorita’ e poi invitati a rinnegare pubblicamente la loro fede. Se accettavano di tornare alla religione pagana avevano diritto al libellum, una sorta di cerficato di conformità religiosa, ma se si rifiutavano di sacrificare agli dèi, venivano prima torturati e poi uccisi.
Di fronte al diffondersi del cristianesimo e temendo che l’aumento dei fedeli potesse minacciare la stabilità dell’impero, nel 249 l’imperatore Decio ordinò una repressione ancora più radicale: tutti i cristiani, denunciati o no, erano ricercati d’ufficio, rintracciati, torturati e infine uccisi.
In quegli, tra il 230 e 235 d.C. durante il proconsolato di Quinziano, nasceva a Catania Agata, dal greco ” buona, virtuosa, nobile di spirito”.
Figlia unica e di nobile stirpe, patrona di Catania e di San Marino, secondo la tradizione cristiana, ricevette dai genitori ( Rao e Apolla ) una buona educazione e dal loro esempio imparò a rifiutare le ricchezze terrene e ad amare Dio tanto da indossare, poco più che adolescente, il “flammeum” ossia il velo rosso fiamma simbolo delle vergini consacrate che queste ricevevano dal vescovo durante una cerimonia ufficiale chiamata “velatio”.
Secondo alcuni storici Agata non poteva avere un’età non inferiore ai 21 anni. Infatti, da un punto di vista giuridico, Agata aveva il titolo di “proprietaria di poderi”, cioè di beni immobili. Per avere questo titolo le leggi vigenti nell’impero romano pretendevano il raggiungimento del ventunesimo anno di età. Rimanendo sempre in tema giuridico, durante il processo cui Agata fu sottoposta, fu messa in atto la Lex Laetoria, una legge che proteggeva i giovani d’età compresa tra i 20 e i 25 anni, soprattutto giovani donne, dando a chiunque la possibilità di contrapporre una “actio polularis” contro gli abusi di potere commessi dall’inquisitore: prova ne sia che il processo di Agata si chiuse con un’insurrezione popolare contro Quinziano, che dovette fuggire per sottrarsi al linciaggio della folla catanese.
Nell’anno a cavallo fra il 250 e il 251 il proconsole Quinziano, giunto alla sede di Catania anche con l’intento di far rispettare l’editto dell’imperatore Decio, fece catturare la giovinetta per conoscerla e si invaghì della sua bellezza e della sua grazia. Saputo della consacrazione, le ordinò, senza successo, di ripudiare la sua fede e di adorare gli dei pagani.
Più realisticamente, però, si può immaginare che dietro la condanna di Agata, la più esposta nella sua benestante famiglia, ci fosse l’intento della confisca di tutti i suoi beni.
Avviluppato dal desiderio per la giovinetta, tentò di corromperla in ogni modo ma tutti i sforzi furono inutili.
Al rifiuto deciso di Agata, il proconsole la affidò per un mese alla custodia rieducativa della cortigiana Afrodisia e delle sue figlie maestre di vizi e di corruzzione. È probabile che Afrodisia fosse una sacerdotessa di Venere o di Cerere, e pertanto dedita alla prostituzione sacra. Il fine di tale affidamento era la corruzione morale di Agata, attraverso una continua pressione psicologica, fatta di allettamenti e minacce, per sottometterla alle voglie di Quinziano, arrivando a tentare di trascinare la giovane catanese nei ritrovi dionisiaci e relative “orge”, allora molto diffuse a Catania.
Agata, però, rimase saldamente ancorata ai suoi principi cristiani e all’amore verso Dio e uscì da quella lotta vittoriosa e sicuramente più forte di prima, tanto da scoraggiare le sue stesse tentatrici, le quali rinunciarono all’impegno assuntosi, riconsegnando Agata a Quinziano.
Rivelatosi inutile il tentativo di corromperne i princìpi Quinziano diede avvio ad un processo e convocò Agata al palazzo pretorio, contando così di piegarla con la forza.
Memorabili sono i dialoghi tra il proconsole e la santa che la tradizione conserva, dialoghi da cui si evince senza dubbio come Agata fosse edotta in dialettica e retorica.
Agata entrò fiera e umile e si presentò al proconsole vestita come una schiava come, come usavano le vergini consacrate a Dio.
Quinziano volle giocare su questo equivoco per provocarla. “Non sono una schiava, ma una serva del Re del cielo”, chiarì subito Agata. “Sono nata libera da una famiglia nobile, ma la maggiore nobiltà deriva dall’essere ancella di Gesù Cristo”. Le affermazioni di Agata erano taglienti e fiere, degne della semplicità di una vergine e della fermezza di una martire.
“Tu che ti credi nobile”, disse Agata a Quinziano, “sei in realtà schiavo delle tue passioni”.
Questa fu una grave provocazione per lui, padrone di quella terra e garante della religione pagana in Sicila. “Dunque noi che dispreziamo, il nome e la servitù di Cristo”, domandò irritato il proconsole, “siamo ignobili? “.
Per Agata che parlava con la forza della fede e illuminata dallo Spirito Santo era arrivato il momento di accettare la sfida e rilanciò: “Ignobiltà grande è la vostra: voi siete schiavi delle voluttà, adorate pietre e legni, idoli costruiti da miseri artigiani, strumenti del demonio”. Quinziano a quelle parole si sentì come un toro ferito. Era incapace di controbattere, non possedeva né risorse culturali di un oratore, né la saggezza e la semplicità delle risposte ispirate dalla fede che aveva Agata.
La fermezza della giovane nel respingerlo lo incattivì sempre di più, tanto da fare rinchiudere Agata in, una cella buia e umida senza cibo ne acqua, all’interno del palazzo pretorio: divenuta in seguito un luogo di culto
Breve fu il passaggio dal carcere alle violenze con l’intento di piegare la giovinetta.
La mattina successiva fu condotta per la seconda volta davanti al proconsole.“Che pensi di fare per la tua salvezza?”, le domandò Quinziano. “La mia salvezza é Cristo”, rispose decisa Agata. Soltanto a quel punto Quinziano si rese conto che qualunque tentativo di persuasione era destinato al fallimento e, con uno scatto d’ira, ordinò di sottoporla a orrende torture.
Ad Agata furono stirate le membra, fu percossa con le verghe, lacerata col pettine di ferro, le furono squarciati i fianchi con lamine arroventate. Ogni tormento, invece di spezzarle la resistenza, sembrava darle nuovo vigore.
Allora Quinziano si accanì ulteriormente contro la giovinetta e ordinò agli aguzzini che le strappassero una mammella. “Non ti vergogni”, gli disse Agata, “di stroncare in una donna le sorgenti della vita dalle quali tu stesso traesti alimento succhiando al seno tua madre?”
Agata fu riportata in cella, ferita e sanguinante. Con le piaghe aperte il dolore era lancinante. La tradizione indica che nella notte venne visitata da san Pietro che la rassicurò e ne risanò le ferite.
Inizialmente Agata non volle che l’anziano che le era comparso innanzi le porgesse i medicamenti che aveva portato con sé per guarire le sue ferite. “La mia medicina è Cristo”, disse, rifiutando delicatamente l’aiuto “se egli vuole, con una sola parola, può risanarmi”. “Le pene che io soffro”, spiegò all’anziano visitatore, “completano il mio lungo desiderio, coltivato sin dall’infanzia”.
Ma quando l’uomo la rassicurò e le disse di essere l’apostolo di Cristo, Agata chinò il capo e accettò che su di lei si compisse la volontà di Dio. Il prodigio non tardò: quando l’uomo scomparve nel buio, Agata si accorse che le ferite erano guarite, il suo seno era rifiorito e il suo spirito si era rivigorito.
Dopo quattro giorni di cella, all’alba del quinto fu condotta in tribunale per la terza volta. Quinziano fu sbalordito e incredulo nel vedere rimarginate le ferite sul corpo di Agata e volle sapere cosa fosse accaduto. Agata gli rispose fiera: “Mi ha fatta guarire Cristo”.
A quel punto Quinziano volle liberarsi definitivamente di quell’incubo e ordinò che venisse sottoposta in pubblica piazza al supplizio dei carboni ardenti con lamine arroventate e punte infuocate, coperta solo da un velo che, secondo la tradizione, mentre il fuoco straziava il suo corpo, non bruciò.
Fu allora che un violento terremoto e un’insurrezione popolare costrinse Quinziano a fuggire per sottrarsi al linciaggio della folla che aveva assistito al supplizio di Agata.
I catanesi accompagnarono la giovinetta agonizzante, nella sua cella, ormai abbandonata dai carcerieri e vegliarono su di lei. La notte seguente, il 5 febbraio 251, Agata spirò di fronte alla folla commossa
I cristiani che avevano assistito al martirio e alla morte di Agata raccolsero con devozione il suo corpo e lo cosparsero di aromi e di oli profumati, come era in uso a quell’epoca. Poi con grande venerazione lo deposero in un sarcofago di pietra, che da allora fino ai nostri giorni è stato sempre oggetto di culto a Catania.
Le fonti narrano che, quando il sepolcro ormai stava per essere chiuso, si avvicino’ un fanciullo, vestito di seta bianca e seguito da altri cento giovanetti. Presso il capo della vergine depose una tavoletta di marmo, che oggi è una preziosa reliquia custodita nella chiesa di Sant’Agata a Cremona, con l’iscrizione latina “M.S.S.H.D.E.P.L.”, che in italiano significa “Mente santa e spontanea, onore a Dio e liberazione della patria”. Questa iscrizione, detta anche “elogio dell’angelo”, è la sintesi delle caratteristiche della santa catanese ed è anche una solenne promessa di protezione alla città.
Il popolare culto di questa martire siciliana si sviluppò principalmente a Catania. Dal secolo VI il suo culto si estese alla Chiesa universale. A Roma le vennero dedicate due basiliche.
Donata a noi da Dio, sorgente stessa della bontà
Dal «Discorso su sant’Agata» di san Metodio Siculo, vescovo,
La commemorazione annuale di sant’Agata ci ha qui radunati perché rendessimo onore a una martire, che è sì antica, ma anche di oggi. Sembra infatti che anche oggi vinca il suo combattimento perché tutti i giorni viene come coronata e decorata di manifestazioni della grazia divina.
Sant’Agata è nata dal Verbo del Dio immortale e dall’unico suo Figlio, morto come uomo per noi. Dice infatti san Giovanni: «A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1, 12).
Agata, la nostra santa, che ci ha invitati al religioso banchetto, è la sposa di Cristo. E’ la vergine che ha imporporato le sue labbra del sangue dell’Agnello e ha nutrito il suo spirito con la meditazione sulla morte del suo amante divino.
La stola della santa porta i colori del sangue di Cristo, ma anche quelli della verginità. Quella di sant’Agata, così, diviene una testimonianza di una eloquenza inesauribile per tutte le generazioni seguenti.
Sant’Agata è veramente buona, perché essendo di Dio, si trova dalla parte del suo Sposo per renderci partecipi di quel bene, di cui il suo nome porta il valore e il significato: Agata (cioè buona) a noi data in dono dalla stessa sorgente della bontà, Dio.
Infatti cos’è più benefico del sommo bene? E chi potrebbe trovare qualcosa degno di essere maggiormente celebrato con lodi del bene? Ora Agata significa «Buona». La sua bontà corrisponde così bene al nome e alla realtà. Agata, che per le sue magnifiche gesta porta un glorioso nome e nello stesso nome ci fa vedere le gloriose gesta da lei compiute. Agata, ci attrae persino con il proprio nome, perché tutti volentieri le vadano incontro ed è di insegnamento con il suo esempio, perché tutti, senza sosta, gareggino fra di loro per conseguire il vero bene, che è Dio solo.
LITURGIA DELLA PAROLA
Prima Lettura Eb 12, 18-19.21-24
Voi vi siete accostati al monte di Sion, alla città del Dio vivente.
Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, voi non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola. Lo spettacolo, in realtà, era così terrificante che Mosè disse: «Ho paura e tremo».
Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova, e al sangue purificatore, che è più eloquente di quello di Abele.
Salmo Responsoriale Dal Salmo 47
Abbiamo conosciuto, Signore, il tuo amore.
Grande è il Signore e degno di ogni lode
nella città del nostro Dio.
La tua santa montagna, altura stupenda,
è la gioia di tutta la terra.
Il monte Sion, vera dimora divina,
è la capitale del grande re.
Dio nei suoi palazzi
un baluardo si è dimostrato.
Come avevamo udito, così abbiamo visto
nella città del Signore degli eserciti,
nella città del nostro Dio;
Dio l’ha fondata per sempre.
O Dio, meditiamo il tuo amore
dentro il tuo tempio.
Come il tuo nome, o Dio,
così la tua lode si estende
sino all’estremità della terra;
di giustizia è piena la tua destra.
Canto al Vangelo Mc 1,15
Alleluia, alleluia.
Il regno di Dio è vicino, dice il Signore:
convertitevi e credete nel Vangelo.
Alleluia.
Vangelo Mc 6, 7-13
Prese a mandarli.
Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.