Poesie

In quel calice

Non è la coppa degli dei;
non è il vino con cui ubriacarsi
per stordirsi e dimenticare.
Quel calice contiene la sorte dell’umanità.
È il calice della salvezza.
Quel vino è bevanda
che inebria l’anima in grazia.
Prima di innalzare quel calice,
tenendolo fra le due mani,
il sacerdote vi raccoglie ed offre a Dio
credenti e non credenti, vivi e defunti.
Il sangue di Gesù, che muore
inchiodato come reo sulla croce,
è forza divina
e germe di risurrezione universale.
La liturgia vuole che vengano versate
delle gocce d’acqua insieme al vino,
simbolo dell’umanità che si unisce
alla vittima divina
per riconquistare con la grazia
il regno perduto col peccato.
Dopo le parole volute da Gesù,
e sono le stesse pronunziate
da lui nell’ultima cena,
il vino diventa sangue di Gesù.
“Questo calice è la nuova alleanza
nel mio sangue
che è versato per voi”.
Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 20).
Non è memoria storica dell’evento.
È presenza reale, viva, sacramentale.
La Chiesa non chiede al sacerdote
di spiegare con parole questa realtà.
Ad alta voce deve ricordare
che è: “Mistero di fede”.
L’assemblea conferma e adora.
È un triplice annunzio:
la morte di Gesù,
la proclamazione della sua risurrezione,
la certezza del suo ritorno.
L’altare si fa calice.
Il sacerdote si fa calice.
La Chiesa si fa calice
nell’unico calice,
quello di Gesù morto e risorto.
È pegno della risurrezione universale.
È invito alla mensa nuziale
imbandita da Dio Padre
per tutti i salvati dal suo Figlio.
È calice e testamento
di comunione e di vita,
offerto da Gesù con un giorno di anticipo
sulla data della sua morte.
Il sangue di Cristo, sigillo del perdono,
è nelle mani dell’uomo
per un’alleanza nuova,
che durerà eternamente
giacchè Dio mai la rievocherà.
Quel calice è la nostra speranza.

P. G. Alimonti, L’Ora più bella, pp 69-70-71