Santa Messa 18-8-20
MARTIRI CAPPUCCINI DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE
Beato Gianluigi da Besançon (1720-1794)
Beato Protasio da Sees (1747-1794)
Beato Sebastiano da Nancy (1749-1794)
- 1793, 10 aprile: vengono arrestati a Rouen
- tra il 23 e 24 agosto muoiono di tifo nel vascello “Deux-Associés
- 1995, 1 ottobre: questi tre cappuccini (Protasio da Sees, Gianluigi da Besançon, Sebastiano da Nancy) sono stati beatificati come martiri da Giovanni Paolo II
Sono entrato nell’Ordine non per comandare, ma per obbedire, non per dominare, ma per essere sottomesso (Beato Jean-Louis Loir di Besançon).
Nella liturgia vengono ricordati il 18 agosto
1. GIANLUIGI DA BESANÇON: UN CANTO DI GIOIA NELLA MORTE
Tra gli oltre 800 preti e religiosi ammassati sui famigerati “pontons de Rochefort” ormeggiati presso l’isola d’Aix nel 1794 c’erano anche diversi frati cappuccini. Avrebbero dovuto essere deportati alla Guyane, ma i velieri inglesi che incrociavano le coste francesi impedirono questo viaggio. Così su questi prototipi “campi di morte” galleggianti molti lasciarono miseramente la vita per amore della fede. Questo sacrificio è stato riconosciuto come grazia di martirio il primo ottobre 1995 da Giovanni Paolo II per Giambattista Souzy, vicario generale de La Rochelle e i suoi 64 compagni, tra i quali i cappuccini Gianluigi di Besançon, Protasio di Sées e Sebastiano di Nancy, dei quali ora vogliamo brevemente narrare la storia.
Giambattista (era questo il suo nome di battesimo) era nato l’11 marzo 1720 a Besançon (Doubs) da Gianluigi Loir ed Elisabetta Juliot, sesto di una nidiata di otto figli e venne battezzato nello stesso giorno. Il padre, parigino, era direttore e tesoriere della Zecca di Borgogna a Besançon e nel 1730 fu eletto direttore della stessa a Lione, dove venne ad abitare con tutta la famiglia e dove il figlio Giambattista fece i suoi studi, anche se non si conosce quasi nulla della sua fanciullezza. Si sa però che a vent’anni, nel mese di maggio 1740, si fece cappuccino nel grande convento della città e prese con l’abito il nome di fra Gianluigi. Professò il 9 maggio 1741. A Lione i cappuccini abitavano in due conventi, uno intitolato a San Francesco e detto “grand couvent”, fondato nel 1575, nel quartiere Saint-Paul, l’altro costruito nel 1622, dedicato a S. Andrea e detto del “Petit Forez”. In queste due case il futuro martire trascorse la maggior parte della sua vita religiosa. Almeno due volte esercitò l’ufficio di superiore, una volta nel convento di S. Andrea dal 1761 al 1764, e una seconda volta nel grande convento di S. Francesco fino al 1767. Oltre questa notizia, gli archivi tacciono.
Un abate che allora lo conobbe rilasciò questa significativa testimonianza: “Dotato di tutte quelle virtùche lo potevano rendere raccomandabile, egli non volle mai accettare nessuna carica, dicendo di essere entrato nell’Ordine non per comandare, ma per obbedire, non per dominare, ma per essere sottomesso. Dedicandosi con umiltà alla salvezza delle anime, esercitò il ministero della confessione con frutto e sembrava in questo infaticabile. Non c’era missione organizzata dai suoi frati, nella quale egli non prestasse il suo zelo. Il popolo semplice e i poveri erano i suoi prediletti; ma anche le persone di riguardo e importanti che si davano alla pietà si sentivano attratte dalla nobile urbanità e affabilità della sua figura maestosa e aggraziata. Sarebbe difficile numerare le conversioni da lui operate e le anime riportate a Dio in tutte le classi sociali”.
Aveva 74 anni quando i rivoluzionari francesi obbligarono i preti e i religiosi, nel 1791, a prestare giuramento scismatico della costituzione civile del clero. Padre Jean-Louis si trovava nel convento di S. Francesco quando l’Assemblea Costituente aveva ordinato l’inventario delle persone e dei beni di ogni casa religiosa. Egli aveva dichiarato di voler restare nell’Ordine. Ma verso ottobre lasciò Lione e si ritirò nel Bourbonnais a Précord, nel castello dove abitava la sua sorella Nicole-Elisabeth col figlio Gilbert de Grassin e dove anche due nipoti suore domenicane avevano trovato rifugio. Una soffiata di qualche malevolo e sospettose dicerie causarono una perquisizione ordinata dal Direttorio il 3 febbraio 1793, e anche se il risultato fu nullo, il 30 maggio tutti gli abitanti del castello vennero trasportati a Moulins, dove 66 preti “insermentés”, refrattari, erano stati reclusi parte nelle prigioni e parte nell’antico monastero Sainte-Claire.
Nell’elenco degli ecclesiastici che non avevano prestato giuramento figurava anche padre Loir, classificato “ci-devant capucin”.
La sua età l’avrebbe risparmiato da ulteriori sofferenze se non fosse stato per il terribile accordo ateistico della fine del 1793, che permetteva tacitamente l’eliminazione di questi anziani ecclesiastici, che, infatti, furono trasportati, molti di loro ammalati, in tre spedizioni diverse, fino a Rochefort P. Jean-Louis lasciò Moulins il 2 aprile 1794, nella terza spedizione, con 26 deportati, canonici, curati, trappisti, cappuccini, altri francescani e fratelli delle Scuole Cristiane. Lungo il tragitto, su carri scortati da gendarmi e da guardie nazionali, vennero compatiti e aiutati dalla gente. Giunsero a Rochefort verso la fine di aprile. Perquisiti di ogni cosa, vennero ammassati su due vascelli ormeggiati in quella costa di mare.
Il vascello sul quale p. Jean-Louis venne trasferito si chiamava “Deuz-Associés”. Il capitano e la sua ciurma erano gente da galera. Sul naviglio erano letteralmente ammucchiati piùdi 400 deportati in stato pietoso, vita di lager ante litteram. Una gavetta lurida serviva per il pasto di dieci persone che dovevano accontentarsi di carne avariata, di merluzzo, di fave grosse, attingendo il cibo in piedi, senza piatti né bicchieri né forchette, stretti stretti fra loro, servendosi di un cucchiaio di bosso. Era il supplizio della fame, al quale si aggiungevano altri terribili tormenti di carattere igienico-sanitario, senza rimedi, e gli insulti di quei marinai aguzzini. Ma il tormento più tremendo erano le ore notturne. Un fischietto annunciava l’ora del riposo. Quella massa umana, con molti vegliardi e ammalati, veniva costretta ad ammucchiarsi sotto coperta, nella stiva, come acciughe in un barile, e la notte era un inferno, con un’ultima raffinata crudeltà, anticipatrice delle camere a gas: quei galeotti spandevano acri vapori facendo scoppiare con palle infocate un barilotto di catrame: un metodo usato per purificare l’aria, ma che provocava nei prigionieri un tremendo sudore e tosse fino alla morte per soffocamento per i più deboli. E in quello stato venivano bruscamente mandati all’aria aperta sul ponte del vascello e tutti dovevano strisciare come vermi e il tremendo contrasto faceva loro stridere i denti per i brividi di freddo.
Tuttavia la pena più grande era di non poter tenere né breviario né altri libri di pietà e neppure di poter pregare insieme. Ciò nonostante c’era chi aveva potuto nascondere un breviario, o un vangelo o gli oli santi e qualcuno anche le ostie consacrate. E in quella cloaca infetta quei martiri si scambiavano i sacramenti che li fortificavano ad affrontare la morte con gioia.
Queste erano le sofferenze di p. Jean-Louis. Ma il suo carattere vivace e allegro infondeva coraggio ai compagni di sventura. Uno dei sopravvissuti testimoniò che il cappuccino, “pur essendo un venerabile vegliardo, era diventato la gioia di tutti. Egli infatti cantava ancora come un giovane di trent’anni cercando così di alleviare le nostre sofferenze, nascondendo le sue che lo stavano terribilmente consumando. Egli morì serenamente come aveva sempre vissuto. Infatti il mattino del 19 maggio 1794, i deportati, al risveglio sotto coperta, trovarono questo eccellente religioso morto in ginocchio al suo posto, e nessuno avrebbe pensato che soffrisse qualche malattia. Dopo essersi levato, si era inginocchiato a pregare e così era spirato. Vedendolo in questa umile posizione, accanto al palo della sua amaca, sembrava davvero che pregasse, ed era morto nell’atteggiamento di supplica come la S. Scrittura ci rappresenta i patriarchi dell’Antica Legge nell’atto di spirare”. Egli fu il primo dei 22 cappuccini che morirono a Rochefort.
2. PROTASIO DA SEES: “OLOCAUSTO TRA LE ONDE DEL MARE”
Sullo stesso famigerato naviglio “Deux-Associés” dove morì il beato Jean-Louis di Besançon c’era anche padre Protasio Bourdon. Anche di lui non sono numerose le notizie. Nato il 3 aprile 1747, venne battezzato il giorno dopo nella parrocchia di Saint-Pierre di Séez (Orne). I suoi genitori e parenti erano benestanti, il padre, Simone Bourdon era un carraio e la madre si chiamava Maria Luigia Le Fou. La formazione cristiana ricevuta (nulla in particolare si conosce della sua fanciullezza e adolescenza) fece maturare in lui la vocazione alla vita religiosa che lo spinse a entrare, ormai ventenne, fra i cappuccini di Bayeux dove professò il 27 novembre 1768 prendendo il nome di Frate Protasio. Nel 1775 fu consacrato sacerdote e tra le scarse notizie d’archivio si trova che abitò per un po’ di tempo nella casa d’Honfleur, vicino al santuario di Notre-Dame des Grâces, di cui ebbe la direzione. Lo si trova anche nel convento di Caen il 29 novembre 1783, e nel 1789 è segretario del ministro provinciale di Normandia.
L’ultima sua destinazione, come segretario provinciale e guardiano, fu il convento di Sotteville, vicino a Rouen. Qui con la sua comunità lo trovarono gli agenti municipali quando vennero a perquisire la casa e a richiedere il giuramento della costituzione civile del clero. Egli rifiutò assieme agli altri suoi confratelli, ribadendo in due circostanze diverse la sua volontà di perseverare nella vita religiosa, e particolarmente il 26 agosto 1791, mentre era in atto l’ultima verifica dell’inventario del convento, dal quale i religiosi l’anno dopo vennero definitivamente espulsi e messi sulla strada. P. Protasio volle ugualmente rimanere a Rouen e, rifiutando di prendere la via dell’esilio, trovò ospitalità presso un signore, che compensava con un po’ della sua pensione e delle elemosine ricevute per le messe celebrate.
Questa sua tenacia gli meritò di essere arrestato il 10 aprile 1793 e di subire un interrogatorio da parte di due fanatici “citoyens”, che, nella sua futilità e leggerezza, mostra, come solitamente avviene, l’inconsistenza di simili processi di cui è piena, purtroppo, la storia. Il testo di questo interrogatorio è stato fortunatamente conservato. P. Protasio risponde con molta libertà, ma è chiaro nel dichiarare di aver rifiutato il giuramento, di voler seguire fedelmente la sua vita religiosa, ed è reticente dove si tratta di non svelare il coinvolgimento di altre persone.
Nella perquisizione avvenuta nella casa dove si era rifugiato erano stati trovati dei manoscritti e alcuni libri stampati che divennero capi d’accusa perché difendevano i refrattari. Egli, da buon normanno, non offre ulteriori spiegazioni che sarebbero state compromettenti anche per altri e neppure svela il nome delle persone presso cui andava celebrando l’Eucarestia in segreto. È un atteggiamento unicamente religioso: per questo egli ha affrontato rischi e pericoli. È qui il suo eroismo. A lui interessa la fede integra, semplice, lucida. Non c’è nessun atteggiamento politico. L’effetto però è immediato: egli è subito rinchiuso nell’antico seminario di Rouen Saint-Vivien, utilizzato dai rivoluzionari come casa di detenzione provvisoria, in attesa della sentenza definitiva, che arriva il 10 gennaio 1794: il “cittadino” Jean Bourdon, ossia p. Protasio è condannato ad essere deportato alla Guyane per aver celebrato la messa illegalmente e aver tenuto documenti sospetti.
Il 9 marzo viene trasportato verso Rochefort. Vi arriva il 12 aprile e, perquisito, viene privato di tutto quello che poteva ancora avere: un orologio d’oro con una scatoletta per coprirlo (probabilmente si trattò di una custodia eucaristica) e 1303 lire. Imbarcato sul vascello famigerato “Deux-Associés”, segue la sorte degli altri prigionieri. Il quadro desolante di sofferenze volgari, di agonie e di morte che forma il tessuto quotidiano di quella prigionia è lo stesso già descritto per il beato Jean-Louis Loir. Dopo quattro mesi p. Protasio, nella notte dal 23 al 24 agosto 1794, moriva di male contagioso. Un sopravvissuto rilasciava più tardi questa testimonianza: “Era un religioso di grande merito ed encomiabile sia per le sue iniziative a favore dei confratelli deportati, sia per le sue capacità fisiche e morali di cui era dotato, sia soprattutto per la sua fermezza nella fede, la sua prudenza, equilibrio, regolarità e altre virtù cristiane e religiose”.
3. SEBASTIANO DA NANCY: “L’ESTASI DEL MARTIRIO”
Tra le 547 vittime dei “pontons de Rochefort” e i 64 sacerdoti beatificati come martiri della rivoluzione francese figura anche padre Sebasatiano da Nancy. La trama della sua biografia è un po’ piùdocumentata. Francesco François era nato il 17 gennaio 1749 a Nancy da Domenico e Margherita Verneson, e venne battezzato il giorno dopo nella chiesa di S. Nicola. Suo padre era un bravo falegname e gente distinta e nobile furono il suo padrino e madrina. Il che significava uno stato sociale di benestanti borghesi. Non fu difficile al piccolo Francesco imparare a conoscere i frati cappuccini che fin dal 1593 si erano insediati a Nancy nella periferia della città per poi passare nel 1613 in un convento piùaccogliente, rifatto con la generosità del duca Leopoldo di Lorena e del re Stanislao nel 1746. Infatti la parrocchia S. Nicola, fondata nel 1731, utilizzava la chiesa dei cappuccini per il culto fino al 1770. I frati si raccoglievano nel retro coro e animavano il Terz’Ordine francescano.
Il loro convento era importante sede del capitolo provinciale e del lanificio della provincia per la confezione delle tuniche e mantelli per tutti i cappuccini di Lorena, distribuiti in ben 28 conventi sul territorio della regione. La loro vitalità apostolica e il loro dinamismo caritativo a favore dei poveri, degli appestati e dei sofferenti li aveva resi assai popolari e molti richiesti. Ma quando nel 1768 il giovane Francesco François, diciannovenne, entrò nel convento di Sanit-Mihiel, fin dal 1602 destinato alla formazione dei novizi, già si notava una certa crisi di vocazioni. La Commissione dei Regolari, istituita dal re di Francia nel 1766 per correggere abusi e riformare i monasteri e i conventi, intervenendo con un editto del re nel 1768 a fissare a 21 anni l’età di ammissione ai voti solenni, aveva contribuito ad accelerare questa crisi.
Il maestro dei novizi p. Michele di Saint-Dié il 24 gennaio 1768 lo rivestì dell’abito cappuccino col nome nuovo di Frate Sebastiano e un anno dopo ricevette la sua solenne professione. L’atto della sua professione, segnato nel registro ufficiale, è il primo del 1769, come l’atto di battesimo aveva inaugurato nel registro della parrocchia S. Nicola l’anno 1749. Dopo il noviziato Sebastiano passò nello studentato cappuccino di Pont-à-Mousson, un convento fondato nel 1607 e rinnovato nel 1764. Al tempo del Beato vi abitavano nove padri, sei chierici e un fratello laico. La città era indicata come luogo di studi avendo un efficiente collegio di gesuiti. Egli stava completando i suoi studi ed era già stato ordinato sacerdote, anche se non si conosce la data precisa della sua ordinazione.
Nel 1777, il 5 giugno, venne approvato come confessore nel convento di Sarreguemines, dove bisognava conoscere anche la lingua tedesca che era usata in quella zona di confine. Nel 1778 i documenti lo segnalano presente nel convento di Sarrebourg, diocesi di Metz, come confessore, in una comunità di religiosi molto esemplare nella povertà e osservanza della regola. I documenti sono molto eloquenti negli anni 1782-1784. Si tratta di registri della parrocchia di Saint-Quirin. Il beato vi svolgeva frequente ministero pastorale, battesimi, matrimoni, ecc. supplendo alla mancanza di clero locale. Il 26 agosto 1784 il capitolo provinciale triennale lo destinò al convento di Commercy dove rimase fino al 1787, e probabilmente fino al 1789, eccetto una pausa nel convento di Dieuze, svolgendo sempre apostolato attivo e in auxilium cleri.
Padre Sebastiano a partire dal 1789 si trovava nel convento d’Epinal, sulla riva sinistra del braccio occidentale della Moselle, quando scoppiò la rivoluzione francese con tutte le sue conseguenze antireligiose. e antiecclesiastiche. I commissari municipali il 30 aprile 1790 entrarono nel convento per fare l’inventario. Un anno dopo i mobili ed effetti del convento venivano venduti, mentre p. Sebastiano, che aveva rifiutato di giurare la Costituzione, con una pensione di 770 lire, dopo l’espulasione dei frati dal convento, si era incamminato verso il convento di Châtel-sur-Moselle, indicato dal Consiglio municipale come casa comune dei cappuccini. Da qui verranno in seguito espulsi per non aver voluto partecipare a una processione guidata da un parroco che aveva giurato la Costituzione civile del clero. Messi sul lastrico, i frati furono accolti e aiutati dalla popolazione. Il 9 novembre 1793 egli fu inviato nella casa delle terziarie a Nancy, che serviva come prigione per i preti refrattari. Era la risposta del Comitato di sorveglianza, al quale il padre si era presentato spontaneamente chiedendo di conformarsi alla legge che prevedeva la prigione ai refrattari.
Il 26 gennaio 1794 l’amministratore del distretto di Nancy venne a verificare la situazione di tutti i detenuti, la causa del loro arresto, l’età e l’eventuale infermità. Di p. Sebastiano annotò che era refrattario e senza nessuna infermità, pronto, quindi a entrare nella lista dei preti ribelli da spedire a Rochefort. Partirono infatti il primo aprile successivo 48 preti e religiosi e dopo un penoso tragitto durato quattro settimane, spogliati di ogni cosa che ancora potevano avere, giunsero a Rochefort il 28 aprile. Pochi giorni dopo erano imbarcati sul naviglio negriero dei Deux-Associés, già carico di ben 373 preti e religiosi prigionieri, vengono trasportati fra le isole d’Aix e d’Oleron dove il veliero viene attraccato. A p. Sebastiano si presenta una visione desolante: quelle centinaia di prigionieri pallidi in viso, barbe lunghe e incolte, abiti sudici, annunciano una prigionia da moribondi. Infatti una vecchia goletta serviva a raccogliere i malati e infettati terminali come in un ospedale, ma senza medicine e medici, in attesa che la morte facesse il suo corso. E allora con un canotto si prelevavano e trasportavano i dieci-dodici cadaveri quotidiani per essere sepolti nella sabbia di quella costa marina.
“Era il nostro naviglio ingolfato di preti e religiosi – lasciò scritto un sopravvissuto – come un altare per l’olocausto innalzato dalla Provvidenza tra le onde del mare per la consumazione perfetta del sacrificio”. I corpi delle vittime, completamente spogliati come nei campi di concentramento itleriani, venivano frasferiti sulle rive sabbiose e alcuni dei prigionieri ancora in discreta salute li dovevano seppellire nella sabbia senza poter recitare apertamente nessuna preghiera o innalzare al cielo qualche canto della Chiesa.
“Dio permetteva questa quotidiana scena di strazio – scrisse ancora uno dei superstiti – per aumentare il prezzo delle nostre sofferenze, donandoci una più perfetta rassomiglianza con il suo divin Figlio nella sua passione. Nulla ci consolava nelle nostre afflizioni, nulla ci fortificava nelle nostre prove se non il pensiero di Gesù che regna nei cieli ed è attento dall’alto del suo trono ai nostri combattimenti, egli che prima di noi e per noi era stato legato, flagellato, schiaffeggiato, sputacchiato, coronato di spine, rivestito da pazzo, abbeverato di fiele e di aceto, inchiodato su una croce, insultato e maledetto dai suoi nemici. Questa considerazione spirituale del nostro Redentore faceva come stillare una dolcezza ineffabile nei nostri cuori. Ci sentivamo felici di essere stati scelti fra tanti per fare questa via dolorosa e seguire il nostro Maestro divino. Soffrivamo non solo con pace, ma con gusto, e morivamo con gioia. Pensavamo che Gesù Cristo aveva voluto, nei diversi secoli, che ciascun dogma della fede fosse conservato e anzi consolidato nella sua Chiesa per mezzo del sangue di un numero di martiri più o meno grande, secondo l’importanza della verità combattuta; e noi pensavamo che era un grande onore per noi essere perseguitati e sacrificati per corroborare l’insegnamento dell’autorità spirituale e indipendente dalle autorità del mondo, divinamente attribuita alla Sede Apostolica e in generale a tutto l’episcopato”.
Questa preziosa testimonianza ha lasciato anche uno splendido ritratto di p. Sebastiano, colto come un fiore speciale di virtù in quel mazzo di fiori profumati dei martiri. Ecco le sue parole: “Il Signore aveva manifestato la santità di un altro dei suoi servi, il padre Sebastiano, cappuccino della casa di Nancy, venuto per morire su questa stessa galeotta. Questo santo religioso era fra noi in singolare venerazione per la sua eminente pietà e virtù e toccante devozione. Pregava incessantemente, soprattutto nell’ultima malattia. Un mattino lo si vide in ginocchio, le braccia aperte in forma di croce, gli occhi elevati al cielo, la bocca aperta. Non vi si fece molto caso, perché si era abituati a vederlo pregare così, durante la sua malattia. Passò mezz’ora ed eravamo stupiti di vederlo perseverare in quella posizione così scomoda e difficile da tenersi in quel modo perché allora il mare era piuttosto mosso e l’imbarcazione beccheggiava e oscillava molto.
Probabilmente era in estasi. Allora ci avvicinammo per osservarlo dappresso. Toccando la sua figura e le sue mani ci rendemmo conto che egli già da molte ore aveva reso in quella positura la sua anima a Dio. Non riuscimmo mai a spiegarci come il suo corpo avesse conservato così a lungo quella posizione orante, nonostante il continuo rullio della piccola imbarcazione. Si chiamarono subito i marinai. Essi a quello spettacolo non riuscirono a trattenere un grido d’ammirazione e le lacrime. Si risvegliò in quel momento la fede nei loro cuori e alcuni di loro, denudando le braccia, mostravano a tutti l’effigie della croce tatuata con pietra rovente, e decisero di ritornare alla religione che avevano abbandonato”. Era il 10 agosto 1794.
LITURGIA DELLA PAROLA
Prima Lettura Ez 28, 1-10
Mentre tu sei un uomo e non un dio, hai reso il tuo cuore come quello di Dio.
Dal libro del profeta Ezechièle
Mi fu rivolta questa parola del Signore:
«Figlio dell’uomo, parla al principe di Tiro: Così dice il Signore Dio:
Poiché il tuo cuore si è insuperbito e hai detto:
“Io sono un dio,
siedo su un trono divino in mezzo ai mari”,
mentre tu sei un uomo e non un dio,
hai reso il tuo cuore come quello di Dio,
ecco, tu sei più saggio di Daniele,
nessun segreto ti è nascosto.
Con la tua saggezza e la tua intelligenza
hai creato la tua potenza
ammassato oro e argento nei tuoi scrigni;
con la tua grande sapienza e i tuoi traffici
hai accresciuto le tue ricchezze
e per le tue ricchezze si è inorgoglito il tuo cuore.
Perciò così dice il Signore Dio:
Poiché hai reso il tuo cuore come quello di Dio,
ecco, io manderò contro di te
i più feroci popoli stranieri;
snuderanno le spade contro la tua bella saggezza,
profaneranno il tuo splendore.
Ti precipiteranno nella fossa
e morirai della morte degli uccisi in mare.
Ripeterai ancora: “Io sono un dio”,
di fronte ai tuoi uccisori?
Ma sei un uomo e non un dio,
in balìa di chi ti uccide.
Per mano di stranieri morirai
della morte dei non circoncisi,
perché io ho parlato».
Salmo Responsoriale Dt 32,26-28.30.35-36
Il Signore farà giustizia al suo popolo.
«Io ho detto: Li voglio disperdere,
cancellarne tra gli uomini il ricordo,
se non temessi l’arroganza del nemico.
Non si ingannino i loro avversari.
Non dicano: La nostra mano ha vinto,
non è il Signore che ha operato tutto questo!
Sono un popolo insensato
e in essi non c’è intelligenza.
Come può un uomo solo inseguirne mille
o due soli metterne in fuga diecimila?
Non è forse perché la loro Roccia li ha venduti,
il Signore li ha consegnati?
Sì, vicino è il giorno della loro rovina
e il loro destino si affretta a venire».
Perché il Signore farà giustizia al suo popolo
e dei suoi servi avrà compassione.
Canto al Vangelo 2 Cor 8,9
Alleluia, alleluia.
Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per voi,
perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Alleluia.
Vangelo Mt 19, 23-30
È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio».
A queste parole i discepoli rimasero molto stupiti e dicevano: «Allora, chi può essere salvato?». Gesù li guardò e disse: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile».
Allora Pietro gli rispose: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi».